Intervista aFabrizio Farina, curatore dei due volumi “Viaggi nello spazio” e “Viaggi nel tempo”, Einaudi.
Buongiorno Fabrizio e grazie per averci concesso un po’ del
suo tempo e del suo “sapere”. Abbiamo letto “Viaggi nello spazio” e “Viaggi nel
tempo” e li abbiamo amati da subito, entrambi. Li abbiamo scelti e poi letti perché,
sul nostro sito, stiamo approfondendo la tematica
del confine, di quanto sia giusto superarlo, di quanto i limiti spesso ci
condizionino e di quel che c’è oltre questi limiti, reali o immaginari che
siano. Superare, in qualche modo, tempo e spazio ci sembra la nuova
frontiera da raggiungere. Lei ci ha fatto sognare con i brani dei grandi scrittori selezionati che hanno raccontato nelle loro opere viaggi nel tempo e nello spazio appunto. In base a cosa li ha selezionati?
Nel caso dei volumi sul tempo, spazio e ora la Luna, il criterio è quello di selezionare dei racconti che trattino il tema in modo originale, che siano ben scritti, che raccontino l’argomento in maniera accattivante (cosa che fortunatamente nella letteratura di fantascienza non manca) e se si ha la fortuna di trovarli, anche dei racconti inediti che rendono l’antologia ancora più interessante e unica.
Lei è il curatore di questi due volumi. Cosa fa tecnicamente il curatore?
Il compito del curatore è scegliere i racconti in base al proprio gusto e sensibilità. Per farlo bisogna leggere molto, non solo con occhio critico ma immergendosi nelle atmosfere delle diverse storie in cui ci si imbatte. Farsi trasportare insomma dalla fantasia degli scrittori.
Secondo lei viaggeremo presto davvero nel tempo e nello
spazio? Se fosse possibile, lei partirebbe?
Nello spazio, come già sapete e seppur in modo limitato, ci siamo stati, il cosmonauta Jurij Gagarin il 12 aprile del 1961 fu il primo uomo nello spazio e 8 anni dopo la missione Apollo 11 porto Neil Armstrong e Buzz Aldrin a mettere piede sul suolo lunare. Il prossimo passo sarà portare l’uomo su Marte ed è questione di tempo, potrebbe già essere tra di voi chi porterà a termine questa impresa. Sul viaggio nel tempo nutro molti dubbi, a livello teorico alcuni scienziati sostengono sia possibile, ma in pratica è ancora impossibile. Anche se tutti noi si viaggia nel futuro, solo che lo si fa di secondo in secondo.
Si è divertito di più a viaggiare nel tempo o nello spazio,
scrivendo? Ma soprattutto, tempo e
spazio possono davvero essere distinti? Noi abbiamo chiamato il nostro sito Geostorie, proprio perché le storie
esistono nella geografia e viceversa. Può valere un po’ lo stesso discorso
per una sorta di spaziotempo?
È come chiedere se vuoi più bene a papà o mamma: diciamo entrambi, anche se forse i viaggi nel tempo per la loro natura tutta “inverosimile” mi hanno affascinato di più. Lo spazio e il tempo sono inscindibili, la loro correlazione oltre che teorica è anche pratica. Infatti si parla sempre di spazio tempo, le distanze spaziali si calcolano in “anni luce” che è una quantità di tempo.
Nei due volumi ci sono brani tratti da Bradbury, Dick, Poe, Salgari, Voltaire: immaginiamo lei ami tutti
questi scrittori, ma ce n’è uno che preferisce? Perché?
Amo Dick, per la sua capacità di prevedere il futuro, le invenzioni e le conseguenze che queste hanno sulla società. Di Bradbury mi piace la capacità di farti sentire dentro le avventure dei personaggi dei suoi racconti. Poe è un caso a parte, la sua scrittura la si ama a prescindere dalla storia che ti sta raccontando.
Le sue copertine
sono sempre bellissime, specie quella di “Viaggi nel tempo” con l’illustrazione
di Alejandro Burdisio. Quanto conta secondo lei la copertina in un libro? Lo
chiediamo alla persona giusta vista la sua esperienza come cover designer…
La copertina è la faccia del libro, quella con cui si presenta in pubblico, deve attirare, farsi vedere senza esagerare, deve incuriosirti al punto di prendere in mano il libro e farti entrare in contatto con l’oggetto.
Cosa bolle adesso in pentola? C’è qualche nuovo
lavoro in cantiere? Noi speriamo di sì, per poter viaggiare ancora insieme.
A giorni uscirà la terza antologia “Viaggi sulla Luna”, che raccoglie i racconti di autori di fantascienza come Ballard, Clarke e Heinlein e scrittori non propriamente del genere come Malerba, Landolfi e Buzzati, ma che ci portano, ognuno a suo modo, sulla Luna, a cinquant’anni dallo storico allunaggio avvenuto il 21 luglio del 1969.
Durante la seconda guerra mondiale, a Manchester, Alan Turing, geniale matematico inglese e grande esperto di crittografia, viene incaricato di decriptare il codice Enigma, ideato dai nazisti per comunicare segretamente le loro operazioni militari. Decifrare i codici della macchina Enigma è una specie di mission impossible perché il meccanismo è estremamente complesso, ma soprattutto perché i tedeschi cambiano la chiave di codificazione ogni 24 ore. I sistemi finora utilizzati non avevano portato frutti, allora il matematico decide di cambiare metodo e chiede a Churchill un enorme finanziamento per realizzare il suo progetto. Iniziano i lavori: nel frattempo il matematico viene ostacolato da molti nemici, invidiosi di lui per motivi diversi, ma il suo piano va a buon fine. Però, alla fine della missione Enigma e a conclusione del conflitto mondiale, si comincia ad indagare su Turing e sulla sua omosessualità e, poiché in quel momento storico essere omosessuali era considerato un grave reato, lo studioso doveva essere punito o con il carcere o con la castrazione chimica. Il protagonista sceglie la seconda e si suicida alla fine del film. O meglio, nei titoli di coda è scritto del suicidio, così come ci sono altre informazioni importanti su Enigma, sul lavoro immenso svolto dallo scienziato (che è oggi considerato un pre-inventore del computer) e sulle tante vite in questo modo salvate da lui.
Questo film mi è piaciuto moltissimo, innanzitutto per come è raccontato, perché è appassionante, e poi perché ho ritrovato argomenti storici studiati in classe. Inoltre mi ha trasmesso due messaggi molto importanti: per prima cosa mi ha fatto capire che è fondamentale rispettare i diritti di tutti e, soprattutto, mi ha fatto riflettere su quanto è importante poter fare qualcosa per gli altri, ognuno secondo le proprie possibilità. Possiamo essere in qualche modo tutti dei piccoli e grandi Alan Turing del futuro.
Spesso si dice che i “giovani d’oggi” sono svegli perché sanno usare i mezzi che la tecnologia mette a loro disposizione. La tecnologia è moderna, veloce, dinamica e aiuta le persone a svolgere in modo efficiente le loro attività. Vero. Ma rappresenta solo cose positive per noi? Spesso mi trovo ad interrogarmi sugli aspetti negativi della tecnologia e ne trovo diversi, sebbene moltissimi siano gli aspetti positivi.
Qualche tempo fa, ad esempio, ho visto una trasmissione in tv che parlava dell’aumento delle ore che i ragazzi della mia età passano a casa senza uscire e confrontarsi con i loro coetanei per immergersi in una realtà virtuale fatta spesso di giochi violenti. È proprio della violenza che voglio parlare, violenza legata alla tecnologia e ai videogiochi. Alcuni simulano la guerra (Apex, Fortnite), altri atti terroristici (GTA, Watch Dog) e altri ancora scene di ordinaria violenza, come per esempio quelli che riproducono furti o rapine, o fanno ironia su atti di bullismo e di torture. Insomma, la violenza si insinua sottile e subdola nel mondo dei videogiochi. E i ragazzi, provando divertimento in questo modo, è come se si estraniassero dalla realtà, non riuscendo più a provare empatia verso i loro simili nella vita reale.
Secondo me tutto ciò è preoccupante. A tutto questo si aggiunge spesso quello che vediamo e sentiamo al telegiornale, mi fa arrabbiare l’espressione giornalistica che rimanda a situazioni così terrificanti che “assomigliano ad un videogioco di pessima qualità”. Peccato che sia la realtà. Alla fine per molti ragazzi tutto questo finisce per sembrare normale e non si riesce più a distinguere la realtà dalla fantasia.
Un’altra cosa importante che ho scoperto è che oltre ai videogiochi violenti ci sono anche quelli estremi: ho fatto una piccola ricerca a riguardo e ho trovato un articolo che narrava la storia di un ragazzo che, pur di completare un gioco estremo, si è tolto la vita. Un quattordicenne. La prima ipotesi è stata quella del suicidio ma dopo che gli inquirenti hanno setacciato lo smartphone e il computer del ragazzo, si è scoperta la verità. Tutto questo è da brivido. A quanto pare è semplice spingersi troppo oltre con questi giochi violenti online. E poi tornare indietro è impossibile. Di esempi ce ne sono molto, ma parlarne mi rende triste, quindi basta un esempio per tutti. Io credo che la tecnologia sia qualcosa di molto utile, ormai anche indispensabile per certi versi, ma le persone non devono farsi dominare, sono gli uomini che devono governarla saggiamente.E poi, anche di non farsi trascinare nel vortice della violenza online, che è pur sempre violenza, anzi è violenza a tutti gli effetti. Ai ragazzi della mia età vorrei ricordare che è bello uscire e divertirsi con gli amici, o anche leggere un libro, ma soprattutto di non dimenticare che prima di tutto siamo esseri umani e non avatar senza sentimenti ed emozioni.
La relazione uomo-macchina, uomo-tecnologia è oggetto di studi e ricerche sempre più frequenti. La tecnologia e il progresso finora non hanno soppiantato la cultura tradizionale del libro, per esempio, o della parola in contrapposizione con la chat, o di un abbraccio reale contro quello virtuale… in futuro chissà? Noi pensiamo che le due facce della moneta dovrebbero continuare a coesistere e che il vero discorso sensato da fare sia qualcosa legato al concetto di Aristotele di “giusto mezzo”. Dovremmo imparare a farne un discorso di buon senso e di “buon uso”, senza arrivare a dipendenze tecnologiche, come nel caso dei videogiochi, per esempio, o sostituire completamente l’uomo con la fredda macchina, come nel caso del mondo del lavoro.
Ci domandiamo se davvero, ed entro quanto tempo, computer e robot sostituiranno le persone nel mondo del lavoro. Succerà sul serio? È un’ipotesi visionaria? Leggiamo molti articoli che annunciano un impatto fortissimo della tecnologia sul mercato del lavoro. Pare che, con tutta probabilità, entro la metà del 2020 i computer scriveranno saggi scientifici ed entro il 2040 produrranno dei bestseller. Addirittura, il giornale inglese The Economist ha creato un programma di intelligenza artificiale al fine di fargli scrivere articoli di giornale e dopo questo esperimento ha dichiarato al mondo: “The machines are coming”, le macchine stanno arrivando. Come porci di fronte a tutto ciò? Torniamo a parlare di limiti e confini, che sembra essere un tema chiave dei nostri anni, di questo secolo, della nostra quotidianità. Ben venga una facilitazione del lavoro, ben venga il progresso che migliora la qualità della vita, ma a discapito di cosa? Le macchine faranno diminuire i già precari posti di lavoro?
Ci ha colpito una frase: “L’unico limite al progresso tecnologico è la nostra fantasia” di Andrea Benedetti. Ed effettivamente sembra che sia così. E a noi piace moltissimo questa sfida, questo modo dinamico e insieme “sognatore” di vedere il mondo, ma se tutto ciò avviene a discapito del senso di umanità forse non è del tutto corretto e ci piace un po’ meno. Abbiamo letto di recente che in California, in un ospedale, un robot ha annunciato la morte prossima a un paziente. Abbiamo riflettuto su questo ed altri episodi e la nostra conclusione è: prima di tutto l’uomo. Perché non vogliamo arrivare all’overdose tecnologica, di cui un altro aspetto è senz’altro l’abuso dei videogiochi, tema molto caro a noi ragazzi. Purtroppo non riuscendo a limitare il contatto con gli apparecchi elettronici abbiamo abusato di questi ultimi in maniera eccessiva, cosa che in futuro potrebbe portare a conseguenze nocive. Per evitare rischi di sindrome da dipendenza o da assuefazione è necessario un intervento informativo: fare informazione anche in questo caso diventa fondamentale, per far conoscere i rischi reali.
In questo modo ognuno di noi, consapevole dei vantaggi e degli svantaggi della tecnologia, avrà piena libertà di scelta e di pensiero, libertà che si troverà a fare conti con la capacità di controllo degli impulsi.
Articolo di Mattia Di Stadio, Alessandro Chiappini, Emanuele Gentile, Giovanni Fantone e Igor Catalli.
AR (augmented reality) e VR (virtual reality) sono due tipologie di realtà parallele che, tramite tecnologia, sono in grado di alterare la nostra percezione del reale. Differiscono però nel senso di immersione che ci riescono a dare nella realtà parallela: nella AR è più superficiale, nella VR più profondo.
Approfondiamo un po’: la realtà aumentata presenta delle variazioni realizzate al computer che immettono nel nostro mondo reale persone, animali o cose in grafica 3D. Un esempio vicino a noi è l’applicazione Pokemon Go: qui la realtà aumentata viene utilizzata per far apparire tramite telefono i pokemon nella vita reale. La realtà aumentata però non serve solo per giochi, ma viene usata anche in ambito lavorativo da molte industrie: ad esempio Lego utilizza questo tipo di realtà per evitare che i clienti più “curiosi” aprano le confezioni per scoprire cosa ci sia dentro, facendo comparire sullo schermo del telefono il suo contenuto. Un deterrente per i furti, dunque. Dunque, la realtà aumentata arricchisce la realtà con delle informazioni da sovrapporre a quelle reali. Le app di questo tipo utilizzano di solito la fotocamera del telefono per mostrare un’immagine di partenza di fronte all’utente, sulla quale vengono aggiunti dei livelli di informazioni, come testi e immagini. Oggi è usatissima nel settore ludico o militare, ma sono nell’aria anche novità nel settore medico e automobilistico.
Simile alla realtà aumentata è la realtà virtuale che però, attraverso l’uso di tecnologie informatiche, può creare un vero e proprio ambiente simulato. La realtà virtuale quindi pone l’utente all’interno di un’esperienza “totale” e “totalizzante”, nella quale invece di visualizzare uno schermo, il soggetto è completamente immerso in mondi virtuali in 3D ed è anche in grado di interagire con essi. Indossando degli appositi visori, potrete addirittura fare una passeggiata in montagna o esplorare grazie a dei tour virtuali aziende e hotel, case da comprare o città da visitare. Questa realtà solitamente viene accomunata ai videogiochi ma non è così, poiché viene usata anche in altri campi come ad esempio in campo medico per simulare degli interventi o anche in campo sportivo per allenare i riflessi.
Dunque la realtà aumentata arricchisce il nostro mondo reale con immagini 3D, mentre la realtà virtuale è un mondo completamente virtuale.
In alcuni utenti sono stati però riscontrati sintomi quali nausea e mal di testa, legati all’impiego -probabilmente eccessivo- di questo tipo di tecnologia. D’altra parte è stata anche evidenziata l’efficacia di queste tecnologie per la riabilitazione motoria, qualcuno dice anche per quella cognitiva. Purtroppo però, vista la novità di queste tecnologie, non esiste ancora uno studio scientifico approfondito che possa confermare o smentire. Noi siamo sicuramente attratti da tutto ciò, ma torniamo a parlare di limiti e confine, in quanto secondo noi un abuso di queste tecnologie ci potrebbe davvero far perdere il senso del reale, l’aderenza alla vita vera.
Articolo di Diego Antonelli, Andrea D’Achille, Igor Catalli, Giovanni Fantone e Gianluigi Liberatore
La fantascienza, da “semplice” genere di evasione che era, si sta occupando negli ultimi anni di temi legati alla scienza, alla tecnologia, all’ecologia. Quindi la lettura in classe di alcuni racconti appartenenti a questa tipologia testuale e i dibattiti conseguenti, ci hanno offerto spunti di riflessione su problemi attuali, in particolare quelli relativi al grande sviluppo scientifico e tecnologico. La medicina, un tempo dominio quasi assoluto della chimica, è ora dominata dalla biologia, che ha saputo scavare nei segreti stessi della vita, arrivando a padroneggiare tecniche che ormai permettono di manipolare addirittura il corredo genetico di qualunque creatura vivente esista sulla Terra. L’anno 2000 , probabilmente, sarà ricordato come un anno importante che ha segnato la storia dell’umanità, infatti è stato proprio allora che si è riusciti a completare l’inventario completo del DNA della specie umana. Di che cosa si tratta? Perché questa scoperta ha così tanta importanza? Prima di tutto c’è in ballo la possibilità di curare malattie gravissime, fino ad allora invincibili, quali ad esempio il cancro, la degenerazione delle cellule cerebrali -che porta alla demenza negli anziani-, persino le malformazioni del feto e bambini con handicap.
Un’ altra conseguenza molto delicata riguarda la clonazione. Nel 1997, poi, un gruppo di scienziati scozzesi riuscì a far nascere una pecora perfettamente identica ad un’altra. Si era prodotta la prima clonazione di un mammifero. Una notizia pazzesca che, come si può immaginare, sollevò da una parte grandi entusiasmi, dall’altra accese forti polemiche. Le persone che la consideravano un avvenimento eccezionale sognavano di poter creare migliaia e migliaia di animali uguali tra loro, rendendo più facile usarne il latte, il pellame, ecc., o moltiplicare le specie in via di estinzione così da allontanare questo fenomeno; mentre gli oppositori erano abbastanza scettici e spaventati dalla possibilità che questa tecnica potesse essere utilizzata sugli esseri umani per ricrearne esatte copie. D’ altro canto è difficile arrestare la corsa verso la conoscenza e non a caso si parla sempre più spesso di bioetica, cioè della necessità di formulare una serie di regole che stabiliscano ciò che è moralmente giusto e ciò che non lo è nel campo della biologia e della medicina.
Ecco di nuovo il tema del confine: fin dove è lecito spingersi? E, soprattutto, chi decide cosa è lecito e cosa no?
Ma torniamo ancora per un attimo alla clonazione che non venne abbandonata e nel 2005 uscì la notizia che era stato clonato anche l’essere umano. L’intento era quello di ottenere cellule staminali. Gli embrioni ottenuti non superarono i cinque giorni di vita ma, nonostante questo, gli oppositori temettero e temono ancora che quell’esperimento fosse solamente una scusa per avanzare negli studi e arrivare un giorno a riprodurre un essere completo. Il tema è effettivamente molto delicato: quali effetti potrebbero derivare da tutto ciò? Si potrebbero creare individui uguali a un modello ritenuto fisicamente perfetto, rievocando follie naziste sulla razza superiore; oppure esseri senz’anima? O esseri perfetti? Chissà! Ma soprattutto ci chiediamo, è davvero lecito creare la vita al di là dei processi naturali? Queste, forse, sono domande senza risposta, o almeno noi non sappiamo entrare in quello che è il campo d’azione della bioetica. Però queste domande ce le siamo poste. Un’altra conseguenza derivante dalla possibilità dell’uomo di intervenire sul DNA sono gli organismi geneticamente modificati (OGM), caratterizzati da un patrimonio genetico in cui sono stati inseriti geni di un organismo del tutto diverso, ottenendo organismi con caratteristiche nuove, ad es. piante capaci di resistere maggiormente alla siccità o all’umidità o ai parassiti. Anche in questo ambito, come di fronte ad ogni novità rivoluzionaria, si sono formati subito due partiti opposti: coloro che ne saltano i vantaggi e coloro che mettono in guardia contro i pericoli. Gli uni vorrebbero diffonderli in tutto il mondo e anche per questo hanno creato un lungo elenco di benefici e il più vistoso è quello con più disponibilità di cibo, per una popolazione mondiale che è assolutamente in crescita; gli altri, invece, avanzano moltissime riserve e sostengono che gli ogm potrebbero far aumentare il rischio di tumori e favorire la diffusione di nuovi virus.
Chiaramente si tratta di problematiche molto complesse e noi non siamo in grado di esprimere delle opinioni; quello che abbiamo capito però è che le nuove frontiere aperte alla biologia devono essere esplorate con la dovuta cautela e con un sistema di regole, il più possibile condivise, non soltanto dagli scienziati, ma da tutti gli abitanti della terra. Per questo riflettere sui confini e sui limiti ci sembra già un buon inizio.
Articolo di Ludovica Bruno, Flavia Giancola, Ivana Gargano
La musica Blues è stata molto importante per la vita dei neri nella seconda meta del 1900. La popolazione di colore con la musica si sfogava, si esprimeva, si divertiva, comunicava insomma. La musica è una forma altissima di comunicazione per tutti e da sempre, ma per loro il blues era davvero fondamentale: riusciva a farli stare bene, a distrarli, anche se solo momentaneamente, dalla tristezza del lavoro nelle piantagioni degli stati del sud degli USA. Le radici del Blues sono da ricercare proprio qui infatti, in queste comunità di schiavi afroamericani che sapevano trasformare la tristezza e la fatica in note preziose. Nel momento in cui cominciavano a suonare il loro strumento, come per magia, ogni brutto pensiero spariva, la fatica spariva.
L’origine del Blues non è facile da definire con esattezza, ma sappiamo che fu importantissimo l’anno 1865, anno dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America. Infatti, una volta ottenuta la libertà, tantissimi ex schiavi, che erano anche musicisti, iniziarono a portare la loro musica fuori dalle piantagioni e questa si diffuse a macchia d’olio, perché sapeva emozionare. Il nome Blues deriva da un modo di dire: “to have the blue devils“, che si può tradurre con “avere i diavoli blu“. Vi spieghiamo meglio: originariamente nella lingua americana espressioni come “to be blue” o “to have the blues” volevano indicare uno stato di ubriachezza. Però, dopo la guerra di secessione in America, questi modi di dire iniziarono ad essere associati ad uno stato di sofferenza, di malinconia. Da origini umili e quasi segrete, quindi, il blues diventò la forma di musica popolare più registrata al mondo. E da qui iniziò a contaminare e influenzare (in alcuni casi contribuì alla vera e propria nascita) molti generi e stili della musica popolare moderna. Tra i (tanti) generi che furono più direttamente influenzati dal blues, non possiamo non menzionare il rhythm and blues, il rock and roll e poi l’hip pop.
Insomma, noi siamo rimasti molto colpiti dal discorso che riguarda, ancora una volta, i confini varcati, le frontiere sfondate, la contaminazione. Soprattutto perché vediamo come sia un tema ricorrente in tutte le materie studiate. La contaminazione infatti, come per la geografia, è anche per la musica un processo spontaneo in tutte le culture che fanno uso di forme musicali.
Un processo che porta alla nascita di qualcosa di nuovo, qualcosa di più ricco, poi, alla fine. Ed è questo il bello.
Abbiamo visto in classe un film, Mississippi Adventure, che ci mostra come il Blues, una volta radicato nell’animo di un suonatore o di un ascoltatore, non va più via. Cattura l’anima. Nel film si racconta l’amicizia nata tra due persone molto diverse, iniziata e cementata grazie alla musica blues: da una parte il giovane Talent Boy, e dall’altra Willie Brown, un vecchio mito del Blues che deve fare iconti con la sua vita e con quelle decisioni che un giorno, in piedi fermo ad un crocicchio, stabilirono il suo destino. Un film in cui la vera protagonista è sicuramente la musica della chitarra e dell’armonica, che accompagna le vicende dei protagonisti per tutta la durata della pellicola.
Per leggere la nostra recensione del film, cliccate qui.
Lavoro di: Luigi Di Domenico, Giulia Romano, Elia Buzzelli, Diego Antonelli, Matteo Montaquila, Ivana Gargano, Lucrezia Magni, Vittoria Tragni, Alessandro Chiappini.
A proposito di confini immaginari, frontiere e limiti imposti della nostra mente che spesso ci hanno fatto perdere possibilità importanti di incontro con l’altro, parliamo di razzismo.
Un salto nel passato: il razzismo affonda le sue radici in tempi antichi. Nel Medioevo, per esempio, alcuni sovrani cristiani vollero impadronirsi delle fortune dei banchieri ebrei; più avanti, intorno al 1500, Spagna e Portogallo portarono schiavi africani nelle loro colonie per impiegarli nei lavori più faticosi senza paga, o quando il 31 marzo 1492 dopo l’unificazione delle corone spagnole, il re e la regina di Spagna firmano la legge per espellere tutti gli uomini di religione ebrea dal territorio spagnolo. Poi l’ideologia razziale acquistò una grande importanza politica tra il 1800 e il 1900, quando cominciarono a diffondersi le teorie sulla superiorità della razza ariana. Il razzismo si diffuse molto, come potete immaginare, anche durante il periodo del colonialismo, quando alcune potenze europee svilupparono una forte idea di discriminazione e disprezzo nei confronti degli indigeni in America, per esempio, o con le persone di colore in Africa. Prima di ciò, il concetto di razzismo era legato “semplicemente” al fatto che un popolo era diverso da un altro popolo. Quando nel 1912 l’Italia attaccò la Libia fece emergere un diffuso razzismo anche nella convinzione della superiorità dei bianchi, e della conseguente inferiorità delle persone di colore. Da qui nascerà la convinzione del diritto/dovere dei bianchi di portare la “civilizzazione” verso popoli ritenuti inferiori. Tra il 1870 e il 1910 in Europa nacque la teoria razzista che accentuò un’elevata violenza contro il diverso. Il razzismo affermò che, come in natura ci sono animali più nobili e forti di altri, questo era uguale per gli uomini.
Eppure, nelle epoche più lontane, si aveva un giudizio discriminatorio che più che alle razze era legato alla società: il patrizio (nobile) era superiore al plebeo (povero) che, se libero, era superiore allo schiavo. La discriminazione passa allora anche da altri fattori, come la società o il sesso. Non si deve dimenticare che molte società di oggi sono sessiste e considerano l’uomo più forte, più intelligente, per il semplice fatto di essere di sesso maschile, e le donne vengono considerate biologicamente inferiori, solo perché tali. La mentalità premoderna non avrebbe mai considerato uno schiavo bianco superiore ad un principe arabo di pelle più scura nel campo sociale, ma lo avrebbe fatto in ambito culturale e religioso. Però se il nobile arabo si fosse convertito al cristianesimo esso sarebbe diventato superiore allo schiavo da tutti i punti di vista. Questo fa riemergere l’ideologia di superiorità di casta. Ma fa emergere allo stesso tempo una gran confusione. Sembra che queste teorie discriminatorie facciano acqua da tutte le parti. Diciamo che non ci hanno convinti… allora abbiamo cercato di capire di più.
Il razzismo scientifico: si è sentito parlare, in certi momenti (tristi momenti) storici, di razzismo scientifico, che è definito come lo studio che appoggia e giustifica le ideologie razziali, diventando fondamento scientifico alla cosiddetta “scienza delle razze umane”. Il razzismo scientifico usa l’antropologia, l’antropometria, la craniometria e altre pseudo-discipline per classificare le razze umane distinguendole fisicamente e separandole, così da poter affermare che una sia superiore all’altra. Il razzismo scientifico si è diffuso dal XVII secolo fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Caspita, questo ci fa riflettere: la guerra mondiale è finita poco tempo fa…possibile che l’uomo abbia ritenuto vere queste teorie? Nel XX secolo, però, per fortuna, il razzismo di base scientifica fu criticato e giudicato non corretto, sempre più screditato a livello scientifico ma ampliamente utilizzato per la consolidare l’ideologia razzista in tutto il mondo, per fare propaganda. Con la fine del secondo conflitto mondiale il razzismo scientifico fu formalmente denunciato in una dichiarazione dell’Unesco del 1950 che appoggia l’antirazzismo. E, poiché la genetica evolutiva si è sviluppata in maniera tale che le differenze genetiche umane non sono più considerate esistenti, in materia di razza, noi oggi non abbiamo più il concetto di razza.
Il razzismo in Europa In Germania: la conseguenza del razzismo che si diffuse, prima in Germania e poi in tutta Europa, fu l’Olocausto. Purtroppo non serve spiegare di cosa si tratta, si sa molto bene. Quello che si sa meno è che si tratta di razzismo non solo contro gli ebrei, sicuramente in maniera più massiccia, ma anche verso rom, extra comunitari, disabili e gente di colore. In Italia: l’Italia nel periodo fascista aveva praticato un’ideologia razzista per compiacere la Germania, il suo maggior alleato. Purtroppo in Italia furono emanate delle leggi razziali, le leggi razziali fasciste, rivolte prevalentemente contro le persone di religione ebraica, fra il 1938 e il 1945, che sono un insieme di provvedimenti applicati inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. In Polonia: durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la conquista della Polonia, i nazisti avevano imposto un forte razzismo e fatto dilagare un sentimento di disprezzo prima contro gli ebrei e poi contro polacchi. Anche dopo la guerra il razzismo in Polonia è stato forte e il nazismo ha corrotto la cittadinanza polacca fino a far credere loro che la fortuna sarebbe arrivata tramite Hitler.
Il razzismo in Africa In Sudafrica e Namibia: l’Apartheid è la politica di segregazione razziale da parte di etnie bianche nel Sudafrica che è stata in vigore dal secondo dopoguerra fino al 1994. L’Apartheid è stato dichiarato crimine internazionale contro l’umanità da una convenzione delle Nazioni Unite entrata in vigore nel 1976. Recentemente è stato inserito nella lista dei crimini contro l’umanità perseguibili dalla Corte Penale Internazionale. In Ruanda: laquestione del razzismo qui si riscontra principalmente nel genocidio del 1994, uno dei più terribili massacri del XX secolo. La maggior parte delle vittime era di etnia Tutsi, una minoranza rispetto agli Hutu cioè il gruppo etnico maggiore a qui facevano capo i principali gruppi responsabili dell’omicidio. Nel massacro non furono risparmiati nemmeno gli Hutu moderati. Dal punto di vista genetico i due gruppi etnici sono estremamente affini ed esattamente come in tutti i fenomeni razzisti, le differenze sono principalmente sociali e culturali.
Il razzismo in Asia In Giappone: qui i casi di discriminazione razziale riguardano quasi esclusivamente le minoranze etniche, in particolar modo le popolazioni Ainu, Burakumin, Ryukyuani, cioè i discendenti degli immigrati dai paesi vicini, e dei nuovi immigrati giunti soprattutto da Brasile, Filippine e Vietnam. Questo è dovuto principalmente dalla convinzione della gente nipponica che solo persone del loro stesso “tipo” possono capire la solo cultura. La costituzione giapponese proclama l’uguaglianza, davanti alla legge, di tutti i cittadini da ogni punto di vista, ma nonostante questo non prevede reali provvedimenti penali contro chi compie discriminazioni legate a queste questioni.
Il razzismo in America Negli USA: il razzismo su base pseudo-scientifica in America fu rafforzato dalle guerre indiane. Per giustificare il genocidio compiuto sugli indigeni è stato detto di tutto. Tutto senza un vero fondamento, però. E alla fine la conquista delle Americhe portò allo sterminio di milioni di indiani: si trttò del genocidio più numeroso della storia. Lo sterminio indiano fu ripreso da Hitler come esempio per la soluzione finale, fin dalle primissime edizioni del Mein Kampf (la mia battaglia), manuale d’ideologia razzista e nazionalsocialista. Andiamo a vedere la situazione dell’America coloniale prima che la schiavitù fosse giustificata e praticata su ideologia razziale: prima, dunque, schiavi sia neri che bianchi lavoravano insieme, con la differenza però che uno schiavo bianco dopo un certo periodo di tempo recuperava la propria libertà mentre questo non era previsto per gli schiavi neri. Dopo una serie di rivolte si arrivò ad usare solo schiavi neri. Così la razza e la condizione sociale arrivarono quasi a coincidere e ancora oggi negli Usa per certi verso questo resta un concetto controverso. Dopo l’Indipendenza, la legge americana garantiva la cittadinanza a tutti i cittadini bianchi liberi, cioè a tutti coloro che avevano origine anglosassone.Intorno agli anni ’40 del XIX, quando la popolazione americana divenne sempre più variegata, e pure sempre più colorata viste le immigrazioni in questo territorio da ogni parte del mondo, si dovette quindi stabilire chi fossero i “bianchi” attraverso una gerarchia di diverse razze al cui vertice si trovavano gli anglosassoni e i popoli nordici.
Il razzismo in Australia In Australia la popolazione aborigena è stata sterminata dalla colonizzazione che, attraverso numerosi omicidi, ha ridotto la popolazione aborigena di circa il 90% tra il XIX e il XX secolo. Sono numeri stratosferici!
Ci viene da riflettere dunque:basi scientifiche a giustificare il razzismo non ce ne sono, pretesti culturali invece sì. Ma questi signori che hanno praticato il razzismo e lo praticano ancora oggi lo sanno che un uomo ha la pelle nera se abita nelle zone geograficamente attraversate dall’equatore? Perché è caldo, i raggi del sole sono perpendicolari qui e rendono l’ambiente torrido e la pelle dell’uomo deve essere preparata, scusa e forte, per sopravvivere. Si tratta di pigmentazione della pelle in base al punto del globo in cui l’uomo vive. Quindi è semplice: l’uomo si adatta, come un qualsiasi altro essere vivente, al bioma in cui vive. I popoli di carnagione chiara allora abiteranno al Nord. Tipo gli Scandinavi. O anche i cinesi e giapponesi. Questi ultimi, oltre a essere chiari, abitando su altipiani, e quindi ad altezze elevate, hanno sviluppato gli occhi a mandorla per far sì che i raggi solari e il vento forte potessero dare eccessivo fastidio… Anche la forma del naso è una questione di adattamento: coloro che vivono in luoghi caldi e umidi tendono ad avere le narici più larghe rispetto a quelli che vivono in ambienti freddi. Le narici infatti regolano la temperatura e l’umidità dell’aria inalata. Insomma ci sono delle caratteristiche che sono legate all’ambiente e al clima. E poi ci sono gli incroci, le contaminazioni del mondo moderno: pelle di mille sfumature, uomini e donne bellissime che nascono dagli incontri di popoli e che ci fanno credere in un mondo migliore. Un mondo possibile.
Articolo di Davide Fantone ed Èlia Buzzelli, 3°B, Castel di Sangro.
“Il diritto di contare” racconta la storia vera di tre donne fantastiche, che mi ha davvero colpita moltissimo. Tre donne che rivendicano il diritto di contare, contare matematicamente e contare in quanto entità civili e sociali. Si parla di emancipazione femminile, di razzismo, di numeri, di NASA e di conquista dello Spazio. Insomma un vero e proprio mix vincente.
Vediamo meglio: siamo nella Virginia segregazionista degli anni Sessanta in cui neri e bianchi vivono vite separate, dagli uffici ai bagni, dalle biblioteche agli autobus. Katherine Jonhson è scienziata e collaboratrice della NASA, molto in gamba e risluta, ma ha un problema: è donna ed è di colore, quindi deve affrontare problemi di sessismo e razzismo. La protagonista di questa storia, infatti, viene emarginata al punto da non poter frequentare gli stessi locali dei suoi compagni di lavoro e, anche per andare in bagno, incontra difficoltà notevoli: deve percorrere un chilometro di strada perché non le era permesso di utilizzare i bagni riservati esclusivamente ai bianchi. Il suo supervisore a lavoro non le riconosce nemmeno i meriti del lavoro effettuato e cerca in tutti i modi di sminuirla e farla sentire inferiore. La donna però, fortissima e determinata, riesce comunque a superare i tanti ostacoli anche grazie al supportodi due amiche, come lei afro-americane, con cui lavora e con cui divide anche molto del suo tempo libero: l’aspirante ingegnere Mary Jackson, bellissima e frizzante, e la contabile Dorothy Vaughan, una spalla affidabile su cui poter sempre contare. Katherine alla fine del film fornirà un fondamentale aiuto alla sua squadra, che stava lavorando al lancio di un uomo in orbita e poi sulla Luna, riuscendo a guadagnarsi il rispetto dei suoi colleghi. Grazie al talento di tre donne nere, la NASA ottiene un successo mondiale e di riscatto, dopo il lancio dei satelliti russi, e loro tre ottengono un successo personale: con il loro garbo e la loro gentilezza, unita alla conoscenza e alla preparazione, riescono a far valere i propri diritti.
Mi è piaciuto molto questo film e credo sia adatto al nostro sito e al nostro progetto sui confini e sulle frontiere, perché le protagoniste sono riuscite ad abbattere due confini radicati e difficili da sfondare: sia quello tra uomini e donne, particolarmente e tristemente noto anche oggi, seppure in certi ambiti in maniera ridotta, e sia quello tra “bianchi” e “neri”. Abbiamo studiato la segregazione razziale negli Stati Uniti D’America e altri argomenti in cui alcuni popoli sono stati sottomessi da altri, momenti tristi della storia mondiale in cui una moltitudine di individui è stata costretta a dover rinunciare alla propria dignità per uno sciocco complesso di superiorità da parte di alcune persone. Quelle persone che, sentendosi minacciate nei loro privilegi, hanno permesso ai loro peggiori istinti di prevalere sulla razionalità. Il film mi ha fatto riflettere su questo aspetto e mi ha anche fatto capire che la grande Storia si scrive, alla fine, con le piccole storie di ognuno di noi.
Negli ultimi anni le maggiori case automobilistiche hanno progettato “l’auto del futuro” per far fronte al grande inquinamento che il diesel e la benzina stanno causando. Si presume che dal 2020 in poi la maggior parte delle automobili diventeranno elettriche, sostenibili, e saranno dotate di molte tecnologie utili per chi guida, ad esempio l’assistenza alla guida, il mantenimento corsia, il rilevamento pedoni con frenata d’emergenza ecc. Grandi miglioramenti in vista, dunque.
Come sarà? L’auto del futuro sarà elettrica: quindi si andrà sempre più a restringere l’ottica dei combustibili fossili. Ma oggi siamo arrivati a un compromesso: l’ibrido è un equilibrio tra benzina e corrente ma in un tempo non lontano si andranno ad avvicinare alle elettriche; quindi saranno sempre più intelligenti, innovative e con nuovi sistemi tecnologici, che arriveranno ad avere un auto con guida autonoma.
L’auto del futuro sarà connessa: quindi si apre e si chiude dallo smartphone, ti avvisa di un veicolo contro mano, individua un parcheggio appena si libera e tante altre cose di questo genere. Ma c’è un grande ostacolo: la memoria di un’auto. Infatti è stato stimato che, per compiere tutte quelle azioni elencate in precedenza, ci vogliono circa 4 terabyte al giorno per ogni auto e quindi una enorme quantità di memoria per l’arco della sua vita e non si sa dove conservarla.
L’auto del futuro sarà elettrica digitale: si calcola che nel 2025 sulle strade di tutto il mondo ci saranno oltre 470 milioni di veicoli connessi. Ma in che modo si interpreta la trasformazione dell’auto? Si fa allargando la risorsa di servizi. Assistenza alla guida, ok, ma ci saranno sempre più sistemi di sicurezza che saranno comunicanti l’uno con l’altro oltre che con l’ambiente circostante. Quindi in un futuro non molto lontano le auto elettriche potranno arrivare all’ “autosostenibilità”.
Quali novità ci saranno rispetto al passato? Rispetto al passato le auto saranno connesse, digitali, elettriche ma arriveranno ad avere una mente artificiale super complessa. Ma quali sbocchi ci saranno? Tanto positivi, quanto negativi. Beh, di certo l’auto del futuro potrebbe togliere lavoro ai tassisti o agli NCC che si potranno trasformare in NCGA, “noleggio con guida autonoma”, ma siccome da parte del consumatore ci sono sempre più domande da soddisfare, si potrà sviluppare un nuovo lavoro che potrà sicuramente occupare altre persone, così da conciliare la tecnologia e il progresso con la bellezza e l’umanità di un essere vivente in carne e ossa.