“In Time” è ambientato
in un’epoca futura in cui l’uomo è geneticamente progettato per vivere fino ai
25 anni; una volta superati, all’uomo non rimane altro che un solo anno di vita
e, dai 25 anni, sull’avambraccio di ogni essere vivente un timer visibile sotto
pelle, inizia a scandire il tempo rimanente di ciascuno di loro. Dunque il
tempo diventa in qualche modo la ricompensa per ogni lavoro, per ogni favore,
una sorta di denaro dell’epoca. I ricchi quindi sono ricchi di tempo, i poveri
in questa società devono guadagnarsi ogni giorno altro tempo da vivere.
A Will Salas (Justin
Timberlake), protagonista maschile, succedono dei fatti che lo cambieranno per
sempre: un “ricco” gli regala un secolo di vita poiché riconosce nel
protagonista, che gli salva la vita, una certa nobiltà d’animo, svelandogli
anche dei segreti su alcune persone che controllano il tempo di tutti, cercando
di far rimanere per sempre la società nettamente divisa tra ricchi (con la
possibilità di vivere illimitatamente) e poveri (che ogni giorno sono costretti
a guadagnare tempo). Per una serie di coincidenze e peripezie che non vi svelo,
Will diventa un fuggiasco insieme alla protagonista femminile Silvia Weis
(Amanda Seyfried), figlia di un ricco personaggio. I due decidono di cambiare
la società in cui vivono, divisa tra ricchi e poveri, rapinando le “banche
del tempo” della famiglia Weis e regalando il tempo ai più poveri. Alla
fine, tra colpi di scena e suspence, riescono a sovvertire il sistema e
progettano azioni sempre più grandi.
Il film mi è piaciuto perché l’attenzione è focalizzata sull’idea di uomini che resistono al culto del capitale, cercando di rimanere umani e donare vita anche ai più poveri, donare tempo facendo una corsa contro il tempo per riscoprire l’importanza di un abbraccio: secondo me è una bella tematica, in linea con il senso di limite e frontiera che in classe abbiamo sviscerato da tanti punti di vista. Cosa conta davvero? Qual è il limite tra giusto e sbagliato? Perché alcuni hanno più tempo di altri? Una frase mi ha colpito e mi ha fatto riflettere su quanto a volte sprechiamo il nostro tempo: “Mi resta solo un giorno da vivere” – “In un giorno si possono fare molte cose”. Lo condivido, cerhiamo di riappropriarci del nostro tempo e di usarlo nel migliore dei modi, coltivando umanità e solodarietà tra le persone.
“Il Vangelo secondo Larry” è un romanzo
per ragazzi di Janet Tashjian. La scrittrice usa un espediente in modo da
coinvolgere di più il lettore: finge che il volume sia stato scritto
dall’adolescente Josh, un ragazzo che vive col suo patrigno e ama il computer e
la tecnologia. Un giorno un po’ per noia e un po’ per salvare il mondo apre un
sito col nome di Larry, su cui scrive opinioni e sermoni su vari temi di
attualità. Il suo patrigno lavora per una multinazionale e questo inizierà a
provocare delle incomprensioni tra loro: Josh infatti è contro le
multinazionali, le ingiustizie e il consumismo sfrenato. Lui decide quindi di
dimostrare che si può vivere solo con 75 oggetti. È questa la cosa che in
particolare mi ha scioccato, perché guardando tutti gli oggetti che ho in casa mia
mi è sembrato assurdo di poterne possedere così pochi. Nonostante Josh abbia un
sito dove poter esprimere i suoi pensieri, in realtà è timido e introverso,
tanto che quando ha bisogno di pensare e riflettere o, ancora, quando deve
scrivere sul suo sito, si reca in un bosco in una “tana” sotterranea. Anche se
inizialmente voleva scrivere sul web solo per sfogarsi, poi le sue riflessioni
diventano famose e addirittura arrivano i primi fan che organizzano un festival
in suo onore: il Larryfest! Da allora sarà inseguito da fotografi, giornalisti
e fan, perderà la sua migliore amica, Beth, di cui è anche innamorato e avrà
dei problemi con il patrigno. Tutti ormai sono solo interessati alla sua fama.
Così, dopo aver riflettuto a lungo prende una decisione drastica per uscire
fuori da questa situazione… e tutto ciò ci fa riflettere su quanto il successo
possa essere effimero, superficiale, fumoso e illusorio.
Dopo aver letto il libro mi sono fatta
questa domanda: noi siamo come Larry o alla fine dei conti ci vendiamo in
qualche modo alle multinazionali? Ho iniziato ad osservare gli oggetti che ho e
i loghi stampati su di esse: Larry mi ha aiutato ad aprire la mia mente e
capire che spesso siamo bombardati dalla pubblicità eccessiva e quindi
influenzati da essa. In conclusione, penso che bisogna conoscere ciò che ci
circonda e capire ciò che va bene e ciò che non va bene, farci sempre domande e
non perdere mai di vista le persone, che contano più degli oggetti. Consiglio
questo libro per potenziare la nostra conoscenza e prepararci ad affrontare i
pericoli della rete.
“Seven Sister” è un film che ho trovato molto interessante, anche se forse troppo violento. Tutto è ambientato nell’ipotetico 2073 e il nostro pianeta, in preda a un sovrappopolamento eccessivo dovuto agli effetti collaterali di nuovi OGM utilizzati per cercare di diminuire la fame nel mondo, si affida ad un’agenzia europea che apparentemente sembra avere una soluzione, ibernare tutte le persone non primogenite in attesa della soluzione al problema. Questa verrà chiamata “la legge del figlio unico”, poiché vi era stato un aumento di parti plurigemellari. La storia prosegue con la nascita di ben 7 sorelle gemelle: per salvarle la madre le fa nascere in un centro non specializzato, con dottori che lavoravano in segreto rispetto allo stato. Queste si ritroveranno ad affrontare una situazione molto difficile: potranno uscire uno dei giorni della settimana a turno e nella loro casa verranno chiamate con i nomi del loro giorno di nascita, c’era Lunedì, Martedì, Mercoledì ecc. Quando però verranno scoperte, la loro situazione muterà in peggio ed è qui che inizia una serie di peripezie spesso trasmesse allo spettatore attraverso scene ciniche, violente, forti. Questo film non mi è piaciuto per via di queste scene e anche per la costante ansia che faceva venire. La cosa che veramente mi ha colpita però è stato il fatto che, un futuro simile (visto che il sovrappopolamento è un problema reale) non è totalmente ipotetico e immaginario, anche se ovviamente molto meno estremo. Questo film lo consiglio agli amanti dei film d’azione.
Abbiamo letto “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda. Ci è piaciuto tantissimo e abbiamo pensato di fare qualche domanda all’autore per soddisfare le nostre curiosità.
Dove e come ha conosciuto Enaiatollah?
Ci siamo incontrati durante una presentazione del mio primo romanzo. Lui
era stato invitato a fare da controcanto, con la sua storia vera, alla storia
da me inventata di un ragazzino romeno che viaggiava da solo, in Europa, per
cercare suo nonno. Quando l’ho sentito parlare, e raccontare, ho percepito una
grande sintonia tra il suo sguardo leggero, persino ironico, sulle proprie
drammatiche vicende, e quello che io tentavo di fare con la mia scrittura. In
quel momento, quella sera stessa, “Nel mare ci sono i coccodrilli” ha
cominciato a nascere.
Cosa ha provato quando ha ascoltato la sua storia?
Curiosità per tutto ciò che non sapevo. Vergogna per il comportamento di
certi uomini. Orgoglio per il fatto che stavo aiutando Enaiat a raccontarla.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
Perché ciascuno di noi può fare del suo meglio per cambiare il mondo, per
renderlo più equo e ospitale, e il primo passo, secondo me, è sapere le cose.
Bisogna informarsi, comprendere e, quindi, avere gli strumenti per poter
discutere. Online ci sono molti siti dove informarsi, quello dell’Unhcr, quello
di Save the children, oppure il Redattore sociale. Il mio unico scopo, quando
scrivo una storia, è raccontarla, diffonderla, perché ho una grande fiducia nel
potere della narrazione. Ogni storia porta dentro di sé delle verità e se la
gente ha voglia può permettere a quelle verità di entrare nella propria vita.
Ogni storia è come un paio di occhiali: una volta indossati, non puoi più
guardare il mondo come prima. Ecco, io spero che questa storia cambi lo sguardo
ai suoi lettori. Molti mi dicono: Dopo aver letto la storia di Enaiat non
riesco più a guardare i giovani migranti con gli stessi occhi di prima, vedo
Enaiat ovunque. Ecco, questo è il risultato che mi rende più felice.
Il titolo “Nel mare ci sono i coccodrilli” ci è piaciuto moltissimo perché è molto evocativo: come le è venuto in mente?
Senza entrare nell’ovvia metafora dei tanti pericoli che attanagliano
l’infanzia nel mondo (i coccodrilli sono i regimi ortodossi, coccodrillo è chi
abusa, chi sfrutta, chi ferisce) mi interessava segnalare la paura tipica di un
infanzia nella quale l’adulto è assente. Tra le tante cose di cui potevano
avere paura Enaiat e i suoi amici, sulle coste turche, certo tra queste non ci
sono i coccodrilli. Ci fossero stati degli adulti, lì, con loro, avrebbero
potuto dire: Stai tranquillo, i coccodrilli nel mare non ci sono (ci sono le
onde, le motovedette e tanto altro, ma non i coccodrilli), e quegli stessi
adulti avrebbero potuto consolare i bambini. Ma gli adulti non c’erano.
Noi, non c’eravamo.
Com’è stato il suo rapporto con Enaiatollah durante la scrittura del libro?
Ottimo. Lui era felice, ma non commosso. Era molto lucido, lui è sempre
molto lucido. Credo che tutto quello che ha passato abbia ricalibrato il
termometro della sua emotività. Lui non si emoziona per quelle cose che di
solito farebbero emozionare noi. In fondo, se a tredici anni sei costretto a
rubare le scarpe a della gente morta, per sostituire le tue, be’, di cosa puoi
ancora stupirti?
La vicenda si conclude con la telefonata tra Enaiatollah e la madre. Sa se si sono rivisti? Che rapporto ha oggi Enaiatollah con il suo paese e le sue origini?
Purtroppo non si sono più rivisti. La mamma è mancata tre anni fa senza che
Ena avesse la possibilità di tornare in Afghanistan a trovarla. Ma si sono
sempre sentiti per telefono e lui continua a informarsi sulla situazione
politica e sociale del suo Paese.
In merito alla tematica scottante delle migrazioni, qual è la posizione di Enaiatollah? E la sua?
È un tema complesso che ha bisogno di risposte complesse. È un tema che
trattiamo come fossimo sempre in emergenza perché non abbiamo la saggezza e la
serenità di considerare le migrazioni come un dato naturale e strutturale delle
nostre società. Ma non si fermeranno. E prima o poi dovremmo accettarlo e
cambiare strategie.
Com’è nata la sua passione per la scrittura? Desiderava fare lo scrittore fin da bambino?
Non so quando ho cominciato a scrivere, ho come la sensazione di averlo
sempre fatto. Ho un ricordo vago di me bambino, forse facevo le elementari, che
ricopio brani del Giornalino di Gian Burrasca sul mio diario personale per far
finta di averli scritti io (un plagiatore in fasce, insomma). E so di aver
pubblicato un racconto horror sul giornalino della scuola, in prima liceo.
Invece, so bene perché. Per dilatare la mia vita, renderla più spaziosa ed
eterogenea. Fin da piccolissimo, lì dove c’era una storia, c’ero io. Che fosse
veicolata da un fumetto, da un quadro, da un film, da un libro, o che fosse
messa in scena su un palco, non aveva importanza.
Come scrive di solito, a mano o al computer?
Computer, ma certo. A mano so a mala pena fare la firma. (Scherzo eh! Ma
non molto).
Ha dei nuovi romanzi in cantiere? Quali tematiche affronteranno?
Ho sempre nuovi romanzi in cantiere, ma per ora… segreto!
Qui potrete leggere la nostra recensione del libro.
INTERPRETE
PRINCIPALE:
Luca Zingaretti nel ruolo del protagonista don Puglisi
Ci
è stata proposta in classe la visione del film “Alla luce del sole”, che narra
la vicenda di don Puglisi, insediatosi nel 1991come parroco nel quartiere
Brancaccio, a Palermo, una delle zone della Sicilia con la più alta densità
mafiosa ed assassinato il 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo
compleanno.
Don
Puglisi lotta con tutte le sue forze per opporsi alla mafia e salvare i ragazzi
del quartiere da un futuro già segnato.
Allestisce
velocemente, con l’aiuto di Domenico, un bravo ragazzo che ha la sfortuna di
avere come padre uno dei capi della mafia del quartiere, un campo da calcio nel
cortile della parrocchia. Chiama a raccolta i ragazzi, cercando di insegnare
loro nuove regole e nuovi valori. Il suo
“centro di accoglienza” diventa ben presto un punto di riferimento per tutti i
giovani del quartiere. Le continue minacce subite da parte dei boss locali
portano il coraggioso parroco a richiedere un aiuto e così vengono inviate tre
suore. Riesce anche a trovare un vice-parroco, un vecchio amico disposto ad
aiutarlo. Don Puglisi sfida a viso aperto il sistema mafioso, arrivando a
tenere discorsi in pubblico che non vengono per nulla graditi dai boss, che
infatti alcune settimane dopo decidono di uccidere il sacerdote. Don Puglisi
viene ferito a morte e resta così nel centro di Brancaccio per lunghissimi
minuti senza soccorso: le persiane delle case rimangono chiuse e i pochi
passanti cambiano strada fingendo di non aver visto niente. Al funerale sono
presenti tutti i bambini della parrocchia, che lasciano un pensiero per lui
sopra la bara.
Questo
film è molto coinvolgente. Non si può rimanere indifferenti di fronte al
coraggio di questo parroco che non si è lasciato condizionare dalla paura e ha
dato tutto se stesso per sconfiggere la mafia e dare ai ragazzi un futuro
migliore. Non mancano scene violente, come quella in cui Domenico viene
picchiato con una cinghia dal padre, solo perché si era recato nuovamente in
parrocchia nonostante gli fosse stato proibito. Il film trasmette molta
tristezza perché quanto accade è una storia vera, non il frutto della fantasia
di un regista. Fa riflettere su quanto le persone possano diventare crudeli per
avidità di potere e di denaro, su quanto la paura, a volte, condizioni le nostre
azioni. Fa capire quanto sia importante avere il coraggio di portare avanti le
proprie idee e aiutare chi è in difficoltà, perché, come diceva Paolo
Borsellino: “E’ bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore
ogni giorno, chi non ha paura muore una sola volta”.
Purtroppo, nonostante il sacrificio
e l’impegno sia di personaggi noti come Falcone e Borsellino, sia di persone
comuni, che ogni giorno lottano contro le ingiustizie e le prevaricazioni, il
drammatico fenomeno della mafia è ancora molto radicato nella nostra società.