Quelle mani scorrevano veloci, nota dopo nota, e Paolo era attento a quei movimenti delle dita. Delle dita grandi e robuste, dal pollice fino all’indice. Le studiava con gran precisione. Il bambino fissava in modo attento prima i tasti bianchi e poi quelli neri di quel pianoforte antico, bellissimo, e poi le dita, in un loop che sembrava quasi infinito, quando in realtà durava solo qualche minuto.
Era talmente preso che non prestava nemmeno attenzione al viso del pianista. Quei pochi minuti s’involano, diventano mesi, anni. Siamo a 20 anni dopo: è la cena di famiglia e quel piccolo è ormai adulto. Intorno a lui, facce amiche e il fuoco di Natale, che scricchiola e arde in quella gelida sera di dicembre. Gli si affollano in mente immagini, il pianoforte, le note, quelle dita. Improvvisamente riaffiorano. Improvvisamente la sua voce rompe il silenzio, quasi vivesse di vita propria, e chiede con foga ai suoi genitori chi fosse quel pianista che per lui era rimasto una grande incognita per anni. “Paolo, ma sei serio? Gianni era tuo nonno, come fai a non ricordarlo?”. Gli si fece chiaro in quell’istante che aveva dei vuoti di memoria su alcuni momenti della sua vita, ma anche di averli volutamente lasciare nell’oblio.
Si apre così, per Paolo, una nuova era, quella della consapevolezza, della scoperta di se stesso, dell’esplorazione della sua anima e del coraggio di guardare in faccia i suoi dolori. Una melodia aveva scatenato in lui qualcosa di ancestrale, profondo. Non sarebbe più scappato.
Si siede al piano, sopra ci sono tre rose gialle seccate con la lacca e ormai immortali, e una foto di suo nonno. Immagina quelle dita, rugose ma sempre eleganti, e poi le sue, sopra quelle di suo nonno: era lui che gli aveva insegnato i segreti della musica. E non solo. Una lacrima gli scende sulla guancia. Ha il sapore di un dolore, ma anche di una rinascita.
Renis Skana – Officine Linguistiche